Rugby e famiglia Le quattro vite di Mauro Gardin Una furia in campo, riservato con gli amici È stato bancario, operaio e commerciante

di Simone Varroto
PADOVA. Gigante indistruttibile del rugby anni ’80-’90 e contemporaneamente bancario, operaio tessile, titolare di un’edicola-tabaccheria. Fino a lasciare tutto a 46 anni per diventare manutentore del verde in una cooperativa sociale. Di più: animalesco, devastante e temuto in campo. Ma gentile, riservato e umano fuori dal rettangolo di gioco. Fosse nato altrove, in Galles o in qualche isola del Pacifico dove la palla ovale è sacra, sarebbe un volto sui murales dei quartieri popolari. Un’icona di cui raccontare il coraggio e la forza ai bambini. Mauro Gardin, 51 anni, è un'ex sportivo padovano che ha scelto una vita tranquilla, scandita dai ritmi della sua famiglia e dai valori imparati in parrocchia e in campo, nei 18 anni da rugbista con il Petrarca. La sua vicenda sportiva e umana è così singolare da risultare quasi paradigmatica. Un antidivo di successo che fa di tutto per restare con i piedi piantati per terra. Perché ha capito che a realizzare le persone sono l’equilibrio interiore e la felicità dei propri cari. Non è da tutti lasciare un impiego sicuro in banca perché non ci si sente a proprio agio dietro una scrivania. Né decidere di chiudere, a quasi 50 anni, un’attività tranquilla come una tabaccheria per imbracciare il decespugliatore per fare il manutentore del verde, sottoposto alla fatica e alle intemperie, in una cooperativa che dà lavoro a persone svantaggiate. Ci vuole coraggio: quello che non è mai mancato al giocatore e all’uomo Mauro Gardin, rugbista purosangue, di cui si racconta che gli bastasse cambiarsi per essere pronto alla battaglia più dura, senza nemmeno doversi scaldare. Mauro si metteva la maglia da gioco e di colpo iniziavano i problemi per gli avversari. Un predestinato, insomma, capace di debuttare in serie A con il Petrarca a 18 anni, alla sua prima stagione assoluta di rugby, e a 20 anni in nazionale. «E pensare che ho iniziato per caso, nell'autunno 1978, grazie a un torneo interscolastico. All'epoca non sapevo neanche cosa fosse il rugby», ricorda Gardin, «Fu il professor Bertaggia, che allenava il Voltabarozzo, a convincermi a giocare e con l'istituto per ragionieri di Abano, l'Alberti. Vincemmo in finale contro il Selvatico. Il torneo si giocava al Tre Pini. Tra il pubblico c'era Memo Geremia, presidente del Petrarca, che a fine partita mi disse: bocia, te si grosso e no te ghe paura de gnente, te ghe da xugare a rugby».
Geremia aveva visto giusto, tanto che solo 9 mesi dopo, a 18 anni, Gardin esordisce in prima squadra.
«Ho iniziato a giocare nella giovanile allenata dal bravissimo Gianni Tosatto, imparando in fretta insieme a tanti altri ragazzi di talento e a fine stagione è arrivata la convocazione in prima squadra. Ho esordito a Roma, nell'ultima partita della stagione 1978-79. L’anno dopo ho fatto qualche presenza nel Petrarca che vinse lo scudetto con Dolfin allenatore e il sudafricano Stofberg stella della squadra».
Gli anni '80 iniziavano nel migliore dei modi per i tuttoneri, destinati a centrare la stella nel 1986 con uno squadrone leggendario, trascinato da un pacchetto di mischia irresitibile con i vari Artuso, Borsatto, Covi, De Bernardo, Dell'Uomo, Farina, Galeazzo, Innocenti, Marchetto, Vigolo, Zulian. E Gardin.
Qual è il ricordo più bello di quel periodo d'oro?
«È legato al primo scudetto di quel ciclo, nel 1984, con Lucio Boccaletto allenatore, il primo che ho vissuto da protagonista. Venivamo da tre stagioni difficili; quel titolo, vinto al Plebiscito contro il Benetton, ci fece capire che eravamo i più forti. L'anno dopo abbiamo fatto il bis, sempre al Plebiscito contro la Benetton, questa volta allenati da Vittorio Munari con cui abbiamo vinto altri due titoli consecutivi».
Qual'era il segreto di quella squadra?
«C'erano caratteri e personalità molto diverse nello spogliatoio, compresa qualche rivalità. Non tutti erano amici. In campo però diventavamo qualcosa di unico, indescrivibile. Con la maglia nera addosso avremmo fatto qualsiasi cosa per un nostro compagno di squadra. Una qualità che rifletteva i valori di un ambiente unico, quello del Tre Pini e dell'Antonianum, del vecchio Petrarca costruito da Geremia e da altri grandi uomini che hanno segnato la storia di questa società sportiva».
E con la Nazionale?
«In Azzurro ho ricordi meno speciali, forse perché vincevamo meno. Certo, ho provato l'orgoglio di rappresentare il mio Paese. Ma erano altri tempi: non c'era tutta l'attenzione di oggi per il rugby e non giocavamo contro le squadre più forti, che anzi ci mandavano contro le seconde squadre. L’esperienza più bella è stata ai primi mondiali, nel 1987, in Nuova Zelanda. Un evento che ha cambiato per sempre il mondo della palla ovale».
Le dispiace non aver potuto giocare nel rugby professionistico di oggi?
«No, sono contento di quello che ho fatto, di aver giocato solo per passione. Il rugby mi ha dato tanto, come sportivo e come uomo, perché ho avuto la fortuna di praticarlo insieme a persone valide che mi hanno trasmesso valori di coraggio, impegno e lealtà. E mi ha dato anche tante opportunità a livello lavorativo, perché è vero che non guadagnavi giocando ma la società, il Petrarca almeno, faceva di tutto per sostenerti nelle tue attività».
Dove ha iniziato a lavorare?
«In banca, come molti altri. Mi ero diplomato ragioniere e giocando al Petrarca ho avuto l'opportunità di trovare subito lavoro. Ma ci sono rimasto solo cinque anni».
Poi cos'è successo?
«Non mi trovavo bene. Non per l'ambiente o i colleghi, ma era proprio il tipo di lavoro che non faceva per me. Avevo bisogno di altri stimoli. Così ho deciso di dare le dimissioni. Quando ho lasciato il posto in banca in tanti mi hanno chiesto se ero matto».
E Geremia come reagì?
«Da uomo di un'altra levatura, come sempre. Devo essere sincero: mi aveva trovato lui quel lavoro, e fu l'unico a capirmi fino in fondo. Mi strinse la mano e mi disse: bravo Mauro, se è questo che senti hai scelto bene. Me lo ricordo ancora con emozione, non l'avevo mai detto a nessuno».
E dopo la banca?
«Ho lavorato un paio d’anni alla Benetton, in laboratorio, al taglio tessuti. Mi trovavo bene e stavo quasi per accettare di giocare a Treviso. Quando Geremia l’ha saputo mi ha convinto a lasciare tutto, proponendomi di aprire una mia attività. Così ho aperto l’edicola tabaccheria a Porta Savonarola, dove si fermavano amici, compagni di squadra e tifosi del Petrarca».
E perché ha deciso di cambiare ancora?
«Per la qualità della vita. Gli affari andavano bene ma gli orari e le scadenze erano diventati pesanti. Avevo già due bimbi piccoli ed uscendo di casa per aprire alle 6 riuscivo a vederli solo per metterli a letto. Così con mia moglie abbiamo ponderato un cambio di vita, grazie a cui ho finalmente trovato la mia dimensione».
Di cosa si tratta?
«La cooperativa sociale Idee Verdi di Abano Terme. È una realtà che non conoscevo e che mi ha stupito, facendomi riscoprire il gusto di lavorare in un contesto sano e stimolante, oltretutto all'aria aperta. Sono inquadrato come tecnico specializzato nel gruppo che si occupa della manutenzione del verde pubblico. Fisicamente è impegnativo, ma mentalmente è molto rilassante. E umanamente stimolante. Per il 95% la cooperativa impiega personale in condizioni di svantaggio psico-fisico, provenienti da esperienze di comunità o espulse dal mondo del lavoro».
È soddisfatto?
«Sì. La cooperativa ha una dimensione sociale molto sviluppata, la correttezza dei rapporti umani viene prima di tutto. E c'è forte spirito di squadra, cosa che da ex rugbista mi fa molto piacere».
Non le manca il rugby?
«No. Il rugby ha segnato la mia vita e mi ha fatto diventare l'uomo che sono. Ogni tanto mi concedo il piacere di vedere qualche partita in tv o di scambiare qualche parere con vecchi compagni di squadra. Magari ci giocheranno i miei figli, se vorranno. Il mio sport adesso è la mia famiglia».

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