Il rugby e l’arte della manutenzione delle società civili di Giuseppe Ciarallo (Paginauno n. 24, ottobre - novembre 2011)

Il rugby tra sport, politica, letteratura e immaginario collettivo
"Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e all’improvviso il sangue di un delitto".
Richard Burton
Strano sport il rugby. Strano e paradossale, a cominciare dalla sua regola fondamentale che impone ai giocatori di avanzare sul terreno di gioco passando la palla... rigorosamente all’indietro! Sport per gente paziente il rugby, con mentalità operaia, razza che conosce la fatica indispensabile per conquistare ogni centimetro di campo, poco per volta, in una estenuante guerra di logoramento, proprio e dell’avversario. Mica come il calcio o, peggio, il più sbrigativo football americano (che qualche profano confonde – orrore! – con il rugby), sport ‘mentalmente capitalisti’, per persone che hanno fretta, che non hanno tempo da perdere, discipline nelle quali il passaggio in avanti è consentito e può risolvere sbrigativamente e in un’unica soluzione il gioco d’attacco e la segnatura, avendo solo, si fa per dire, cura di evitare l’aggressiva violenza dei difensori.
Ma sono tante le affascinanti chiavi di lettura che si possono dare alla regola numero uno del rugby. Una potrebbe essere quella secondo la quale il futuro (la linea di meta, che è di fronte a noi) può essere conquistata solo volgendosi all’indietro (cioè verso le proprie radici, verso il passato dal quale dovremmo sempre attingere per non ripetere gli errori). Un’altra interpretazione potrebbe riguardare una sorta di disposizione all’umiltà, come a dire ‘vai pure avanti, ma ricordati di fare sempre un passo indietro per non passare da arrogante’.
Altre e più importanti componenti, però, fanno del rugby una disciplina oltre che spettacolare, altamente edificante. Tanto per cominciare il rugby è senza alcun dubbio lo sport più democratico che ci sia. Non c’è preclusione per alcun tipo di fisico. Basta guardare la composizione delle squadre. C’è quello basso e traccagnotto, adatto alla prima linea, c’è quello piccolo e veloce per sgusciare tra le maglie della difesa avversaria, c’è quello alto e muscoloso, buono per gli sfondamenti, insomma che uno sia piccolino, alto, robusto, grasso, mingherlino, non ha alcuna importanza, essenziale per giocare a rugby è la voglia e la capacità di versare sangue, sudore e lacrime (anche se non sempre, solo metaforicamente). A conferma di questa mia tesi, ponendo l’accento anche sull’aspetto caratteriale dei giocatori, giungono le parole del giornalista e scrittore francese Jean Giraudoux, il quale afferma: “Otto giocatori forti e attivi (quelli del pacchetto di mischia, n.d.a), due leggeri e scaltri, quattro veloci e un ultimo, modello di flemma e sangue freddo... una squadra di rugby è la proporzione ideale fra gli uomini”.
Ernesto Guevara de la Serna, ventenne, giocatore del club Atalaya di Buenos Aires, 1948 (D.R./Photo X)
Inoltre, nel rugby sono regole imprescindibili il rispetto per l’avversario, la solidarietà di gruppo, il ridimensionamento dell’individualismo a favore di una visione collettivistica del gioco, l’educazione alla pazienza, l’educazione al rispetto delle regole e soprattutto dell’arbitro, l’educazione alla fatica, al sudore, alla dovuta considerazione per il lavoro proprio e degli altri, la fiducia nei propri mezzi che non deve mai sfociare in spocchia. Ora, se pensiamo al triste periodo storico che ci è toccato in sorte, nel quale il successo arride a pupazzi senza arte né parte, a squallidi individui che hanno diffuso la peste del disimpegno, della scorciatoia, del risultato senza fatica, una disciplina che in totale controtendenza predica la dedizione, l’elogio del sacrificio, il rispetto per l’altro, la riuscita collettiva contrapposta al successo individuale, è un tonico massaggio cerebrale e un balsamo rigenerante per i cuori avviliti dei tanti che non hanno voluto piegarsi alla logica perversa della società dello spettacolo (indegno). Per non parlare di un concetto del tutto sconosciuto ai più, oggi, quale è quello del rispetto delle regole e soprattutto di chi quelle regole è tenuto a far adempiere. Su un campo di rugby non si vedrà mai un giocatore inveire contro l’arbitro o contestarne le decisioni, anche quando quelle decisioni sono dubbie o quantomeno non condivise. La buona fede dell’arbitro e la sua imparzialità, nel rugby sono fuori discussione.
Molto significativo, in tal senso, il racconto dei fratelli Bergamasco, colonne della nazionale italiana, in un libro intervista a cura dello psichiatra e psicoterapeuta Matteo Rampin (Andare avanti guardando indietro, Ponte alle Grazie): “Era una domenica di primavera, dovevamo giocare contro il Mirano in una partita di campionato. All’inizio del secondo tempo l’arbitro assegnò alla squadra avversaria una meta che in realtà non c’era. Il giudice di gara sente che uno di noi due (non facciamo nomi, diciamo solo che si trattava del minore) se ne esce con un’imprecazione non proprio da oxfordiani. Cartellino rosso: due settimane di sospensione dalle competizioni. In quegli anni il Petrarca (la squadra di Padova nella quale i due giocatori militavano, n.d.a.) non gradiva molto questi exploit, soprattutto da parte dei giocatori giovani: per far passare il messaggio, la società duplicò la pena, e le settimane di sospensione divennero quattro”.
Non v’è dubbio che gli altri sport, in primis il calcio, sono più in linea con l’attuale posizione politico/governativa e quindi con il conseguente comportamento di un intero popolo: indifferenza nei confronti delle leggi, per aggirare le quali ogni mezzo o mezzuccio è buono, critica feroce verso chi impone il rispetto della legalità (i giudici nella vita della nazione, l’arbitro nel gioco).
È conseguentemente naturale che la rigida disciplina osservata dai giocatori in campo, abbia poi una benefica ricaduta su chi assiste alla partita sugli spalti. Nel rugby non esistono gli ultrà, i tifosi di opposto schieramento assistono all’incontro fianco a fianco, scambiandosi commenti, facendosi vicendevoli complimenti sulla squadra, il tutto magari bevendo una bella pinta di birra, senza che mai si sia verificato il benché minimo incidente (negli annali è riportato il quasi mitologico episodio di un tifoso un po’ esagitato che dopo aver scagliato una bottiglia di plastica in campo, è stato immediatamente individuato dalle forze dell’ordine dopo essere stato insultato dal resto della curva). Piccolo ricordo personale: Italia-Nuova Zelanda, stadio di San Siro prestato per un pomeriggio al rugby, spalti gremiti da ottantamila persone, metà delle quali, probabilmente provenienti dal tifo calcistico, erano state attirate dal grande evento mediatico e che subito dopo la Haka, la danza maori eseguita prima di ogni partita dai mitici All Blacks, avevano già esaurito tutto l’interesse per il match essendo completamente a digiuno delle regole della palla ovale. Ebbene, lo speaker dell’incontro dovette ripetere per tutta la durata della partita che il fischiare gli avversari è un gesto estraneo alla filosofia del rugby.
È per tutte queste ragioni che, se fossi ministro della Pubblica Istruzione, e quindi una figura istituzionale deputata alla salvaguardia della cultura di una nazione, ma soprattutto a una sua crescita etica e morale, renderei obbligatorio nelle scuole l’insegnamento del rugby, fondendo l’ora di ginnastica con la riesumata lezione di educazione civica di antica memoria.
Dopo tutte queste considerazioni, mi piacerebbe trovare una risposta alla domanda che da sempre assilla il mio cuore di militante rugbista di sinistra: com’è possibile che in Italia una disciplina così aperta, collettivista, operaia nella sua essenza (è vero che lo sport è nato in un college a opera di uno studente figlio della borghesia britannica, ma è altrettanto inoppugnabile che si sia poi sviluppato con particolare rigoglio tra i minatori e gli operai gallesi, scozzesi, irlandesi e inglesi), sia stata considerata nell’immaginario collettivo del passato – oggi fortunatamente non è più così – uno sport tipicamente ‘fascista’?
Molto probabilmente il tutto prende spunto dalle parole che Achille Starace, segretario nazionale del Partito fascista e presidente del Comitato olimpico nazionale italiano dal 1933 al 1939, pronunciò con la solita, retorica enfasi a proposito di quello che all’epoca veniva definito lo sport della ‘oblunga palla di cuoio’: “Il giuoco del rugby, sport da combattimento, deve essere praticato e largamente diffuso tra la gioventù fascista!”. Starace, evidentemente, ben guardandosi dal praticare personalmente uno sport così duro e impegnativo, si era limitato a estrapolare dall’insieme complesso di caratteristiche di cui il rugby è composto, quel machismo da quattro soldi che il fascismo non perdeva occasione di esibire e ostentare a ogni piè sospinto. Mi piacerebbe vedere oggi la faccia del gerarca, nell’apprendere che il calendario fotografico realizzato molto spiritosamente dai giocatori del campionato francese, che vi compaiono in costume adamitico, è diventato oggetto di culto e indiscussa icona tra le comunità gay internazionali, senza che la cosa abbia per nulla turbato o causato risentimento negli stessi giocatori. Un bello schiaffo, questo, all’omofobia che regna sovrana in altri sport.
Dunque, sfatiamo il mito. Il rugby non è affatto uno sport di destra, anzi... se proprio vogliamo dirla tutta, se Starace si è limitato a blaterare di coraggio, di cameratismo, di gioco maschio e virile, un personaggio di tutt’altra caratura, qualche anno dopo calcherà i campi fangosi d’Argentina forgiando il proprio carattere e, secondo molti, gettando le basi per una visione del mondo e della società che condizionerà ineluttabilmente la sua vita futura. Sto parlando di Ernesto Che Guevara. Ecco cosa ne pensa Gerardo Enet, suo vecchio compagno di squadra: “Salvando le logiche distanze, vedo un rapporto tra lo sport che praticavamo e la vita successiva di Ernesto. Il rugby è una lotta che implica un costante contatto fisico. Per praticarlo ci vuole un gran temperamento e uno spirito molto speciale”. Secondo Sergio Giuntini, poi, autore del saggio Il Che e lo sport (Che Guevara, il rugby e altri scritti sulla palla ovale, AA.VV., Sedizioni), è del tutto legittimo immaginare che il Che abbia fatto tesoro di quel patrimonio di rude e spartana vita rugbistica accumulato in gioventù, per utilizzarlo durante le successive privazioni della guerriglia sulla Sierra Maestra e nelle fatali giornate boliviane. L’autore del saggio si spinge oltre, fino ad asserire che il rugby possa avere perfino influenzato il pensiero del giovane Ernesto, affermando che “su un altro piano, la filosofia rigidamente collettivista del rugby richiama alcune delle categorie che informano la dottrina socialista”.
Chiuso il capitolo della politica, apriamo ora quello dell’arte e più specificamente della letteratura.
Mi sono chiesto quanti scrittori, una disciplina così complessa, affascinante e ricca di possibili risvolti narrativi, possa avere ispirato. Pensando alla boxe, altro sport duro e da forti emozioni, i primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Jack London, Irwin Shaw, Osvaldo Soriano. Di calcio, poi, se ne sono occupati davvero in tanti. Non sembrano essere particolarmente numerosi, invece, gli scrittori che hanno preso spunto dalla palla ovale per raccontare le loro storie. Uno dei primi grandi nomi a citare, seppure alla sua maniera, il gioco del rugby fu Oscar Wilde, che con la sua tagliente ironia, inimitabile cifra della sua scrittura, sentenziò: “Il rugby è una buona occasione per tener lontani trenta energumeni dal centro della città”. E Pelham Grenville Wodehouse: “Segnare una meta richiede una serie di azioni che in qualunque altro contesto procurerebbe ai protagonisti una condanna a quindici anni di galera”. I giocatori e i tifosi, gente spiritosa e capace di autoironia, ancora ci ridono a queste sottili battute.
Più recentemente, la scrittrice francese Dominique Manotti ha sfiorato l’argomento: il suo commissario Daquin, protagonista di alcuni romanzi, è bello e sofisticato, è omosessuale e ama il jazz e soprattutto il rugby, sport che peraltro pratica tra un’indagine e l’altra.
In italiano, poi, sono davvero poche le opere letterarie che parlano di rugby. Al di là di alcune raccolte di novelle – I racconti del rugby di Henri Garcia (Possibilia), Oltre la linea bianca di Franco Paludetto (Libreria dello Sport), Novelle ovali di Antonio Falda (La Riflessione) e il più recente Up & Under di Andrea Pelliccia (Absolutely Free) – una delle realizzazioni editoriali di maggior successo – per avere ispirato il film Invictus, regia di Clint Eastwood e l’attore Morgan Freeman nei panni di Nelson Mandela – è il romanzo Ama il tuo nemico (Sperling & Kupfer, titolo originale Playing the Enemy) dell’inglese John Carlin.
L’autore racconta come l’intuizione politica del presidente sudafricano sia riuscita a inventare la più audace e improbabile delle imprese: usare il rugby (sport di esclusivo appannaggio della minoranza bianca afrikaner) e il campionato del mondo di questo sport, che si tenne nel 1995 proprio nel Paese impegnato a superare definitivamente le fratture sociali causate dall’apartheid, per unire una volta per tutte i sudafricani di ogni etnia e colore. In effetti può sembrare una favoletta a lieto fine, ma nel complesso le cose andarono proprio così: gli Springboks, i giocatori sudafricani, sostenuti anche dalla popolazione nera che fino a quel momento aveva riversato verso quello sport ‘bianco’ tutta la propria avversione e il proprio livore, sconfissero sul campo gli avversari neozelandesi in una finale mitica, e Mandela, presente sugli spalti, venne unanimemente acclamato dal popolo della sua nazione.
“Stavo con la testa contro il sedere di Mellor, aspettando che la palla gli arrivasse tra le gambe. Lui fu lento. Già mi spostavo, quando il cuoio mi rimbalzò tra le mani e, prima che riuscissi a passare, una spalla mi colpì alla mascella. Mi fece sbattere i denti con tale violenza che mi s’abbuiò tutto intorno”. Comincia con queste parole, nel bel mezzo di una mischia, quella che è forse l’opera più importante che abbia come sfondo il mondo del rugby. Il campione, del britannico David Storey (Feltrinelli), la cui prima edizione inglese è datata 1960, è stato definito “il miglior romanzo sportivo che sia mai stato scritto”.
Ambientato in un desolato distretto minerario del nord dell’Inghilterra, il libro narra delle vicende di Arthur Machin, onesto lavoratore e idolo di piccole folle paesane, costretto a combattere, sui campi come nella vita, per sfuggire al destino di un’esistenza stentata e senza orizzonti, che la miniera offre. Particolare curioso, nel disegno di copertina della prima edizione italiana, un acquerello di Heiri Steiner, compaiono giocatori inequivocabilmente in tenuta da... football americano!
Ma un vero e proprio capolavoro, secondo il mio modesto parere, non poteva che essere scritto da un neozelandese. Il libro della gloria, di Lloyd Jones (Einaudi), frutto di un colossale lavoro di scrupolosa ricerca tra giornali, riviste e documenti vecchi di oltre un secolo, racconta la leggendaria prima tournée internazionale degli All Blacks, nel 1905, con i ventisette ragazzoni di nero vestiti, a calcare i campi e le strade d’Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda, Francia e poi Stati Uniti, senza mai perdere l’ingenuità e lo stupore per essere loro malgrado oggetto d’attenzione per intere nazioni. Seppure il ritmo del romanzo è inevitabilmente scandito dalle partite che vengono giocate in un incalzante susseguirsi, sono i pensieri dei giocatori, le impressioni, i sentimenti a delineare la storia, i ricordi... “La richiesta di un piccolo paralitico a George Smith, di fargli la firma sugli arti atrofizzati [...] A Blackfriar, la piccola fiammiferaia che corse ad accendere la pipa di Jimmy Duncan [...] I francesi, pazzi di gioia, celebrarono la loro meta con capriole, verticali, ruote e salti mortali [...] Le due anziane contadine che, riconosciutili, regalarono a Gillett e Harper un cestino di uova sode [...] Tutte le miniere di carbone della zona di Forest Green chiuse nel giorno della partita con il Gloucester [...] Scrivere false lettere d’amore a quelli di noi che non ne ricevevano”. Gentile, delicato, pulito, questi i tre aggettivi che paradossalmente mi vengono in mente per connotare un libro chiamato a parlare di uno sport violento, rude e in cui inevitabilmente ci si sporca.
Nel Belpaese, però, la palma di cantore della palla ovale va indubbiamente assegnato a Marco Paolini, che ha scritto e portato in scena le esilaranti e commoventi avventure di una squadra di ragazzi, ex contadini riconvertitisi in idraulici, menatubi, impiantisti, elettricisti nel laborioso e mitizzato Nordest. Raccontate da Paolini, le rigogliose lande delle province venete non sono poi così dissimili dai claustrofobici bacini minerari gallesi. L’autore ci spiega (Gli album di Marco Paolini, volume 1, Einaudi), con rara capacità di cantastorie, del perché il rugby abbia così tanto attecchito nel suo Veneto, rispetto al resto della penisola. “Classe operaia e sapienza contadina fanno una miscela micidiale. Se hai la terra nel cognome giochi bene: Visentin, Trevisin, Furlan, Mestriner... Più terra c’è nel cognome meglio giocano, è fisiologico”. Ma un’altra riflessione di Paolini, degna di nota, riguarda il confronto tra il rugby e il calcio, discipline così diverse, che vengono paragonate rispettivamente, sempre per rimanere in ambito di metafore bellicistiche, alla prima e alla seconda guerra mondiale. Col rugby che ricorda la logorante conquista, palmo per palmo, della trincea nemica, e il calcio più simile alle battaglie aeree nelle quali si può vincere senza nemmeno sporcarsi le mani.
Ma ciò che meglio definisce la bellezza di uno sport, metafora della vita, che insegna ad affrontare con impegno ma anche con leggerezza i colpi che l’esistenza inevitabilmente riserva all’uomo, sono le parole dei fratelli Bergamasco, che di terra nel loro cognome ne hanno eccome: “Forse la radice dell’atteggiamento scanzonato che si coglie nel nostro ambiente deriva dall’enorme sproporzione tra gli sforzi messi in atto da atleti dal fisico imponente e lo scopo del tutto futile per cui questi sforzi sono dispiegati con tanta dedizione. Questa sproporzione sembra quasi caricaturale: anche se l’ambiente è ricco di riferimenti bellici e marziali, non stiamo andando in guerra, anche se ci comportiamo come se dovessimo entrare nell’arena davanti a Cesare, non siamo gladiatori... stiamo solo correndo dietro a un pallone!”

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