Quell’irascibile di Bollesan

C’è una foto meravigliosa. Venticinque giocatori più quattro fra tecnici e dirigenti, totale ventinove azzurri, schierati su quattro file – seduti a terra, seduti su una panchina, in piedi, in piedi su un’altra panchina -, per il ritratto ufficiale della prima Coppa del mondo, nel 1987. Poi pare che Massimo Mascioletti se ne sia uscito con una battuta, dev’essere stata una battuta travolgente se tutti i ventinove ridono, sorridono, si sganasciano, si piegano in due dalle risate. Che invece ci fosse poco da ridere, se ne sarebbero accorti poche ore dopo, alla prima partita, a Auckland, contro gli All Blacks, primo tempo 17-6 per i neozelandesi, risultato finale 70-6, e una storica meta di John Kirwan in slalom, da costa a costa, fra nove italiani.
Cominciare a commentare un libro da una foto, potrebbe anche sembrare strano. E forse lo è. Ma in questa foto c’è anima, c’è spirito, c’è filosofia: c’è la sostenibile leggerezza del rugby. Almeno, del rugby di Marco Bollesan. Uno che ha sempre considerato il rugby come una guerra cui segue la pace più allegra della vita.
S’intitola “Una meta dopo l’altra”, si sottotitola “Della vita e del rugby”, lo ha pubblicato Limina (142 pagine, 16 euro), lo ha scritto Gabriele Remaggi, ma lo ha dettato, raccontato, respirato Bollesan. Che ha cominciato dai genitori, e già da lì si capisce l’antifona: “Mio padre si chiamava Rodolfo, almeno, io lo conoscevo così, ma aveva anche un po’ di nomi d’arte: Alfonso, Gino, Giorgio. Ha fatto un sacco di mestieri, se si possono chiamare mestieri. Ha fatto il contrabbandiere, il gigolò in Costa Azzurra, giocava sempre a carte”, e “Mia madre, Iris, era splendida, amava fare la bella vita, ma anche lei non è che fosse molto regolare, è stata la prima morfinomane in Italia, so che è stata per un po’ di anni con uno a Roma”.
Il resto è spiegato, descritto, narrato così. Senza peli sulla lingua, a parte quelli che Bollesan rumina dai suoi baffi. Un teppista salvato dal rugby, un guerriero valorizzato dal rugby, tanto da diventarne ambasciatore, un uomo costruito dal rugby. Lui che del rugby è sempre stato un professionista, lui che con il rugby ha girato il mondo, lui che per il rugby si è tappezzato di punti democraticamente sparsi dalla testa ai piedi, lui che nel rugby ha fatto anche l’allenatore e il team manager e adesso lo scrittore. C’è un bel fiorire di “belin” e “rompicoglioni”, di “cazzo” e “cosa cazzo fai”. C’è una bella letteratura di storie, come quella di Campanella, estremo aquilano, “famoso perché faceva sempre la stessa finta: passaggio da una parte e scatto dall’altra. Non ci si poteva cascare, perché bastava tenergli d’occhio il bacino per capire che non avrebbe cambiato direzione. Invece quello ci cascò, e per colmo di scorno, accadde che cascò nella peggiore finta Campanella di sempre, fatta verso un compagno immaginario, visto che alla sinistra dell’estremo c’era solo la pista di ciclismo. E lì cadde lo sventurato, preso in giro fino alla morte da quel pubblico crudele. A L’Aquila non ci volle più andare”.
Qui in “Una meta dopo l’altra” c’è tutto Bollesan. Accentratore, protagonista, mattatore. Irascibile, invadente, insopportabile. Generoso, coraggioso, divertente. Travolgente, esagerato, implaccabile. Uno che ne ha prese, ma quante ne ha date. Uno che ne ha dette, ma quante ne ha fatte. Uno che ha il naso da pugile e gli occhi da assassino, che ha la pelle da gallese e il cuore da scozzese, che ha globuli ovali. Uno che non si è mai tirato indietro. Uno che non è andato lui al rugby, ma il rugby a essere andato da lui.

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