Gli indignados del rugby italiano

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Viene voglia di parafrasare Ennio Flaiano, che definiva la situazione politica italiana del suo tempo “grave, ma non seria”. Già: la situazione del rugby italiano è grave, ma non è seria. In fondo, per superare questo passaggio – direbbe qualcuno – agghiaggiande basterebbe mettere in campo le imponenti risorse del rugby parlato (di cui, sia chiaro, anche questo blog fa parte). Che aspettiamo a chiamare gli indignados del commento postpartita e ad affidare loro la Nazionale? Una ripassata come si deve ai fondamentali e in un paio di settimane non vedremo più palle perse nell’uno-contro-uno, presunti ball currier che rimbalzano sul muro della difesa, linee del vantaggio inesplorate più della foresta Amazzonica, calci benedetti dal dio della casualità eccetera. Che aspettiamo a seguire i saggi consigli? Vediamo: con i neozelandesi abbiamo dato; con i francesi pure, e in abbondanza; con i sudafricani anche… L’uomo della provvidenza, archiviato il dossier Brunel, potrebbe finalmente arrivare dalla Kamchatka? Dopo una tale ristrutturazione, non c’è dubbio, la nazionale-bagnarola si trasformerebbe, abracadabra, in una corazzata imbattibile.
O no?
Più che marciare verso Londra, il rugby italiano sembra franare su se stesso. Il rugby italiano, non la Nazionale. Perché è vero che i recenti test sono mortificanti, ma forse conviene spostare lo sguardo dal dito alla luna. Il nostro rugby ci sta dicendo qualcosa: vogliamo ascoltare?
Brunel e i giocatori avranno le loro colpe, ma è il modello organizzativo che non funziona. Il nostro sistema è tagliato fuori dalla competizione globale perché è configurato sulla fatalità, sul piccolo cabotaggio politico, sulle paturnie di uomini degni del Borgorosso Football Club (che Alberto Sordi ci perdoni), anziché su una visione strategica di lungo periodo, appoggiata su una solida e moderna struttura. Anche quando vinceva qualche partita (per merito di eccellenti giocatori), la nostra Nazionale aveva i piedi d’argilla.
Campanilismo e velleitarismo imperano. La prosopopea dilaga a scapito della programmazione. Mentre lastrichiamo di parole sui Valori Del Rugby la via che ci porta nell’inferno del ranking e costruiamo accademie-monadi, gli altri – più pragmatici e più efficienti – sviluppano i loro piani di costruzione (vedi l’Argentina) o di ricostruzione (vedi la Scozia e l’Australia). Anziché mettere noi stessi al servizio di un rigoroso progetto-Nazionale (armati dell’umiltà, dei mezzi, del sapere e della pazienza che occorrono), preferiamo darci ai dibattiti sul nulla: gli italiani sono fatti per giocare a rugby? E’ migliore la scuola francese, quella inglese o quella australe? Qual è il numero ideale di franchigie? Dove si compra il killer instinct?
Dall’alto in basso, è tutto uno scaricabarile. Anziché porre le basi per risolvere alla radice il problema di un calciatore allineato allo standard internazionale, diciamo sopra l’80% di efficacia (gli inglesi ci hanno messo circa tre anni, e non sono partiti da zero, a rimpiazzare Wilkinson), noi pretendiamo che ce lo mandi il cielo, ogni tanto. Anziché formare una nuova leva di avanti degni di Castro e compagni, che negli ultimi anni sono stati in prima linea anche nella difesa dell’onore della maglia azzurra, ci trastulliamo con i pettegolezzi sul tramonto del nostro numero 3 (ovviamente trascurando il dettaglio che se un giocatore non gioca, o gioca poco, com’è toccato per vari motivi a Castro negli ultimi mesi, non può certo ritrovare lo stato di forma in una manciata di minuti). Anziché concepire la qualità come un processo che comincia nel minirugby, facciamo a gara a chi si scandalizza di più se la nostra ala o il nostro centro non tiene in mano una palla neppure col bostik (sarebbe come preoccuparci del futuro dei nostri figli il giorno in cui escono dal liceo, anziché a partire dalla scuola elementare).
Abbiamo cominciato citando Flaiano, non possiamo che finire con Nanni Moretti: continuiamo così, continuiamo a farci del male. A sparare sui giocatori e a sperare in un ct dotato di poteri magici, a trattare la didattica peggio di Cenerentola, a presentare bilanci in rosso, a ignorare i modelli che nel mondo funzionano, ad azzuffarci tra fazioni regionali/provinciali/comunali/rionali/condominiali… A guardare con la lente d’ingrandimento ogni fotogramma dei match, mentre l’onda di piena del rugby contemporaneo ci sta travolgendo.

mondovale.corriere.it

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