Il rugby fra comunità e comunella

Sarà per il pallone, ovale e non rotondo. Sarà per i rimbalzi, imprevedibili e mai banali o scontati. Sarà per il contatto fisico, voluto e cercato. Sarà per quel senso di solidità e di solidarietà, una solidità solidale e anche una solidarietà solidale. Sarà perché tutti sostengono di capirci almeno qualcosa e invece nessuno ci capisce proprio niente. O sarà forse perché è il più bello sport che si potesse concepire, tant’è vero che è nato per caso, o per errore, o per sfida, o per provocazione. Sarà perché è intelligente, infatti è nato in una università.
Sarà perché è bislungo, ma il rugby sembra una buona compagnia e anche una buona terapia. I primi a credere nel valore del rugby come attività per chi ha disagi psichici e mentali sono stati i milanesi della Mud Mad Star, emanazione della Stella Rossa Rugby Milano, bel gruppo di popolari e antirazzisti. Poi sono venuti gli Invictus di Prato. E adesso i Bufali Rossi di Colorno. L’arte del passaggio, il senso del sostegno, la filosofia dello scontro/incontro, lo spirito del gioco, l’integrazione compresa quella fra avanti e trequarti. Senza dimenticare il prima e il dopo: il prima, passare a prendere, e il dopo, riportare a casa, magari dopo una doccia comunitaria e perfino un terzo tempo.
Il rugby è una buona scusa per stare al mondo, ma è anche un buon modo per imparare a stare al mondo. Liberare energie, poi trasformarle, incanalarle, inquadrarle, armonizzarle, valorizzarle. Insieme. Così il rugby è anche un buon modo per sentirsi meno soli, meno strani, meno diversi. Finché l’appartenenza a uno sport, a una disciplina, a un regolamento, diventa un codice. E la squadra appare come comunità e comunella, comunione e comunismo, come una casa-famiglia.

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